Pubblicato come storia di copertina su Internazionale

Le ombre di palazzi e monumenti oscurano le porzioni di vissuto che ci appartenevano. Con l’imposizione di una distanza sociale e lo stato di isolamento, strade, piazze, chiese e musei si sono svuotati progressivamente.

Non siamo più gli stessi, da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia causata dalla diffusione su scala globale del Covid 19. Un nome in codice per un male difficile da decifrare. Invisibile, volatile, eppure letale. Gli italiani hanno iniziato a farsi forza con flash mob e canzoni intonate da balconi e terrazzi, rimanendo poi ammutoliti mentre il paese diventava uno di quelli con il più alto numero di vittime al mondo. Questo virus si è impossessato della nostra vita, per come la conoscevamo prima, è diventato una questione personale per ognuno di noi. Ci ha costretto a tagliare i ponti con i nostri familiari, con i nostri amici. Ci ha fatto guardare con occhi diversi quelle strade polverose e sporche, così come i ricordi di quelle lastricate e affollate di turisti. E non sono i vessilli esposti in finestra a dare un’idea di unità nazionale, ma forse quella consapevolezza più profonda che ci fa vivere le stesse paure e intravedere le stesse speranze. Mentre il mondo come lo conoscevamo prima si è fermato, le città hanno ripreso a respirare. Con le automobili incasellate sotto i condomini e i centri storici svuotati dall’assenza dei turisti, a ricordarci la distanza tra centro e periferia. Sogni e realtà. Così in poche settimane si è passati dagli sguardi sgomenti dei commessi dietro le vetrine dei negozi di lusso senza avventori, agli sguardi di tutti noi, persi nei riflessi dei vetri ingrigiti di casa. Nel mezzo una prigione invisibile, pensieri sovrapposti. E la testa che è rimasta fuori, appesa a un filo. Come le nostre vite sospese.

LE NOSTRE VITE SOSPESE (2020)